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La crisi energetica in Europa
Gas Overview
Una delle conseguenze principali dell’invasione dell’Ucraina da parte della Russia corrisponde ad un vertiginoso aumento dei prezzi dell’energia in Europa. In particolare, ii costo del gas è aumentati di 10/15 volte rispetto al costo medio degli ultimi 5 anni, passando da circa 20€ per MWh a picchi vicini a 350€ per MWh. La causa è la riduzione dei flussi di gas da parte della società russa Gazprom come risposta alle sanzioni europee strutturate per scoraggiare Putin e la sua guerra.
L’Europa fino allo scorso anno riceveva circa 150 bmc annui (gas + LNG) dalla Russia, pari al 40-45% del totale delle sue importazioni. Questo scenario, oltre ad evidenziare la cattiva gestione strategica dell’approvvigionamento europeo, per nulla diversificato, ha aperto una sfida tutt’altro che semplice per l’Europa che ora si ritrova a dover sostituire miliardi di metri cubi di gas in pochissimo tempo.
Alla data del 5 settembre la panoramica relativa alla situazione Gas-Europa è la seguente:
Le importazioni dai gasdotti russi sono diminuite del 48.2% costringendo l’Europa a ridurre i propri consumi su base annua (-12.2%), aumentare la produzione di gas interna (+0.6%) e aumentare a dismisura le importazioni di LNG (+70%) e di conseguenza le sue strutture di stoccaggio (+45bcm).
Produzione e Importazioni
La Russia serviva l’Europa attraverso tre gasdotti principali: Nord Stream, Yamal e Brotherhood. Ad oggi, solo gli ultimi due sono ancora attivi trasportando flussi minimi verso il vecchio continente.
Per compensare questa mancanza i Paesi europei si sono attivati puntando fortemente sul gas liquido (+71.4% YTD) proveniente da Paesi come gli Stati Uniti, il Qatar e l’Australia. Questa transizione dal gas naturale al gas liquido implica però costi aggiuntivi, in quanto quest’ultimo viene trasportato via oceano su navi, dette metaniere, per poi essere consegnato a impianti di rigassificazione. Negli ultimi mesi sono stati avviati progetti per la costruzione di questo tipo di strutture, che possono essere situate sia a terra che su piattaforme/navi off-shore, al fine di aumentare il più possibile l’approvvigionamento di gas liquido.
Internamente, la produzione di gas naturale è aumentata in alcuni Paesi che possiedono giacimenti sotto la superficie terrestre come Norvegia e Regno Unito (+3.6% e +10.9% rispetto al 2021). Mentre dalla tabella possiamo notare che altri Paesi europei invece di incrementare la propria produzione l’hanno diminuita a causa di instabilità nel sottosuolo e ritardi burocratici e decisionali che verranno trattati nelle pagine seguenti.
Stoccaggio
In sovrimpressione è illustrata la situazione di ogni Paese relativa al consumo (in bcm) previsto da ottobre 22 a marzo 23, la quantità di gas immagazzinato e il corrispettivo in numero di giorni invernali coperti. La media europea è di 51 giorni su 180 (meno di due mesi) che equivalgono all’86% di capacità totale di stoccaggio.
Ad oggi, il livello di riserve di gas tra i Paesi europei è molto differente data una serie di variabili come la rete di approvvigionamento, la capacità degli impianti di stoccaggio, il clima e la propensione a limitare i consumi, che hanno influito sulle possibilità di approvvigionamento e di stoccaggio di metri cubi di gas di ogni Paese.
Italia, Francia, Germania, Polonia e Repubblica Ceca hanno fatto un ottimo lavoro risparmiando gas ove possibile e muovendosi anticipatamente per concludere nuovi accordi con altri Paesi esportatori per colmare il vuoto lasciato dai flussi russi. A fine agosto si trovavano con una buona quantità di bcm di gas per superare l’inverno, fermo restando che continueranno a ricevere l’attuale quantità di gas/LNG senza nuove limitazioni e gestiranno al meglio i consumi.
Al contrario il Regno Unito a causa della scarsità di impianti di stoccaggio e l’Estonia per mancanza di collegamenti a reti di approvvigionamento sono più in difficoltà. Ai livelli attuali entrambe le nazioni non avrebbero gas a sufficienza per coprire più di dieci giorni di consumo medio invernale.
Spagna e Portogallo, invece, hanno sicuramente meno preoccupazioni (in media entrambe hanno immagazzinato bcm di gas per venti giorni di inverno) in quanto, dato il clima favorevole della penisola iberica non hanno forte bisogno di stoccare gas in previsione dell’inverno.
Inverno 2022 - 2023
Dal quadro illustrato precedentemente è facile intuire che anche con tutti gli impianti di stoccaggio al 100%, il totale di bmc di gas non riuscirebbe a colmare il fabbisogno complessivo europeo da ottobre 22 a marzo 23.
La situazione rimane fortemente incerta perché l’Europa potrebbe rimanere senza gas, quindi, di conseguenza senza riscaldamento e senza elettricità. D’ora in poi sarà essenziale razionalizzare la distribuzione, infatti, sia la Commissione Europea che i governi dei singoli Paesi hanno ideato piani energetici per limitare il consumo di gas a livello industriale e domestico. L’obiettivo è risparmiare circa il 20% rispetto al consumo medio europeo degli ultimi anni (considerando che i flussi attuali in entrata non varieranno), percentuale che si discosta dalla media da Paese a Paese.
Sicuramente, una variabile determinante saranno le temperature che ci aspetteranno durante i prossimi mesi, un inverno molto freddo potrebbe vanificare in modo significativo gli sforzi fatti finora.
Prendiamo come esempio la Germania:
A fine agosto la Germania aveva capacità massima di stoccaggio di gas paragonabile a 245 TWh, ovvero pari al consumo totale di due mesi invernali, garantendole di arrivare senza problemi fino a metà/fine dicembre. Alla stessa data gli impianti erano pieni all’82% (201 TWh).
L’analisi in tabella mette in evidenza due scenari in base alle temperature di questo inverno, noi ci concentreremo sul caso peggiore. Considerando che tra ottobre e marzo la stima relativa al consumo in TWh sarà di circa 120 TWh al mese, e che i flussi mensili di gas in entrata si sono ridotti da una quantità di 80 TWh a 50 TWh, la Germania si troverà con un deficit mensile pari a 70 TWh, e di 179 TWh al 31 di marzo dopo aver prelevato tutte le riserve presenti nelle strutture di stoccaggio.
Come annunciato precedentemente, la strategia fondamentale sarà ridurre il più possibile i consumi piuttosto che aumentare le quantità immagazzinate. Infatti, come viene evidenziato nella tabella, consumare circa il 20% in meno rispetto alla media di periodo è tre volte più efficace che aumentare lo stock di gas del 20%. La prima soluzione permette di “guadagnare” più di un mese di consumi, mentre la seconda solo dieci giorni.
In conclusione, con un consumo totale di 720 TWh in sei mesi, al verificarsi di un inverno molto freddo, la Germania si troverebbe obbligata a risparmiare il 33% di gas rispetto al suo consumo medio. Rispetto alle stime attuali riuscirebbe a coprire solamente 481 TWh attraverso il gas stoccato e i nuovi flussi di LNG che dovrebbero iniziare ad essere importati da febbraio, quando i due nuovi impianti di rigassificazione saranno pronti.
Osservando i dati il Paese si trova in una situazione di piena incertezza che potrebbe superare in caso di inverno non eccessivamente freddo e grazie alla collaborazione dei Paesi UE che si trovano in condizioni migliori. Quest’ultima potrebbe essere una nuova sfida che ci darà nuove risposte relativamente all’unità e alla cooperazione dei Paesi dell’UE.
Come sostituire il gas russo
La sfida imminente per l’Europa è sicuramente superare l’inverno senza rimanere al freddo e al buio, che è invece il primo obiettivo di Putin che piuttosto che pensare all’economia della sua nazione, ad oggi, preferisce infliggere il maggior danno ai Paesi europei in una dinamica di escalation continua dopo le sanzioni applicate alla Russia.
La prova futura che attende l’UE, invece, sarà quella di sostituire per sempre le importazioni di gas russo (150 bcm), importando 200 bcm di LNG nel 2023, mantenendo i consumi ad un -12% anno su anno rispetto al totale del 2021.
È un obiettivo raggiungibile?
Potrebbe essere raggiunto, ma solamente a due condizioni:
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Il prezzo del gas liquido in Europa deve essere maggiore del prezzo di acquisto in Asia, in modo tale che le esportazioni dai maggiori fornitori (Qatar, Stati Uniti, Nigeria, Australia, Malaysia e Indonesia) confluiscano nel vecchio continente.
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Devono essere costruiti nuovi impianti in grado di aumentare la capacità di rigassificazione e stoccaggio europea.
Il primo punto si è e si sta verificato, infatti, come possiamo notare dalla tabella sottostante i prezzi dei futures del gas in Europa sono superiori a quelli asiatici, ciò ci ha permesso di importare il +70% di GNL in più, finora, rispetto al 2021 e senza la concorrenza asiatica.
Tutto ciò è stato possibile anche grazie all’incertezza relativa al contesto macroeconomico globale, che ha spinto le società che esportano e costruiscono impianti di GNL a bloccare i contratti a lungo termine, in quanto sono necessari miliardi di dollari di investimenti anticipati. Questa situazione ha favorito il mercato spot, quindi la flessibilità dei prezzi, e di conseguenza l’Europa perché in seguito alla forte domanda ha fatto schizzare il prezzo del GNL nel continente, superando il prezzo asiatico.
Di questo passo a fine anno potremmo aver importato circa 141 bcm di GNL, 53 bcm in più di quelli confluiti lo scorso anno e pari ad un terzo dei 150 bcm di gas russo importati nel 2021.
Dal totale (150 bcm di gas russo) rimangono da coprire 100 bcm che potremmo colmare in tre modi:
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Miglior utilizzo delle infrastrutture
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Impianti di stoccaggio, riserve strategiche e nuovi accordi
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Sfruttamento degli impianti di estrazione esistenti e costruzione di nuovi
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Di seguito vengono analizzate le possibili soluzioni:
1. Attualmente la capacità massima di rigassificazione e stoccaggio in Europa è intorno a 157 bcm all’anno, che corrispondono a circa il 40% della domanda europea di gas. Il problema è che parte di questi impianti sono situati in zone strategicamente non adatte (massimo utilizzo pari al 60%), perché non sono collegati adeguatamente a punti di approvvigionamento, alla rete europea o hanno un unico fornitore, e quindi potrebbero trovarsi in grave difficoltà in una crisi legata alla fornitura di LNG. L’UE sta promuovendo progetti per creare hub regionali e per incentivare la diversificazione dei fornitori
Come possiamo notare dal grafico sopra, Spagna e Francia sono due dei tre Paesi europei con maggiore capacità di stoccaggio in Europa e, soprattutto la Spagna, è un punto di approdo molto favorevole per LNG proveniente dall’Algeria (ad oggi fornisce l’11% della domanda complessiva europea). Il problema è che la penisola iberica non è efficacemente collegata alla Francia e quindi al resto del continente.
Qualche anno fa era stata discussa in entrambe le nazioni la proposta di costruire attraverso i Pirenei il gasdotto “Midcat/STEP” lungo 227 km, ma fu bocciata dopo le proteste di ONG e cittadini più propensi ad una svolta energetica green.
Il nuovo gasdotto potrebbe far confluire in Europa circa 40 bcm in più, pari al 27% delle importazioni russe. In questi giorni i governi di entrambi le nazioni si sono resi disponibili a riiniziare le discussioni per riprendere in considerazione il progetto, che potrebbe essere finalizzato in pochi anni, e garantirebbe sempre più autonomia e diversificazione rispetto ai fornitori.
2. L’Europa possiede un “cushion gas”, ovvero un importante deposito di gas all’interno di caverne saline e falde acquifere che le autorità, per ragioni tecniche e di sicurezza, insistono affinché sia sempre pieno e che non venga utilizzato per essere commercializzato sul mercato. Gli analisti di Wood Mackenzie, attraverso i loro studi, hanno stimato che un decimo di tali riserve potrebbe essere estratto senza causare problemi. Questa quantità è pari ad un mese di importazioni russe, e in una situazione di crisi indotta da una guerra come oggi i regolatori potrebbero dare il permesso di estrarre il gas necessario.
Inoltre, le riserve strategiche dei singoli Paesi possono essere un’altra ancora di salvataggio, infatti, nazioni come l’Italia, hanno stock di gas che potrebbero essere utilizzate se la situazione dovesse diventare particolarmente critica. La disponibilità italiana è pari a circa 5 bmc di gas, quantità che permetterebbe, se sfruttata al meglio, di superare un inverno intero. L’unico vincolo per il suo utilizzo, secondo la normativa italiana vigente, è che può essere sfruttata solo nel momento in cui la capacità di importazione è massimizzata.
Infine, i vertici di ENI e il governo italiano in questi mesi hanno lavorato per concludere nuovi accordi con Paesi esportatori per continuare a ridurre la dipendenza dal gas russo. A fine aprile è stato stipulato un contratto per aumentare la fornitura di gas proveniente dalla Repubblica del Congo per 4.5 bcm su base annua. Durante i negoziati si è iniziato a discutere anche di una nuova fornitura di LNG per altri 4.5 bcm che potrebbe arrivare in Italia dal 2023. Parallelamente sono state trovate simili intese con Angola, Egitto e Algeria per importare da ciascuno flussi di gas per circa 1.5 bcm ogni anno. L’obbiettivo dichiarato dal ministro della transizione ecologica, Cingolani, è quello di raggiungere l’indipendenza dalla Russia dalla seconda metà del 2023.
3. Considerando il terzo punto, su base annua notiamo due variazioni della produzione significative: L’Olanda da inizio anno fino al 31 di agosto ha diminuito la sua produzione del 29.5%. Un dato in totale controtendenza con la situazione che viviamo oggi. Si fa riferimento essenzialmente all’impianto produttivo di Groningen, uno dei 10 più grandi al mondo, che nel 1976 ha raggiunto il picco di 88 bcm di gas estratti, più della metà di quelli che importavamo dalla Russia. Fino a cinque anni fa la quota era diminuita a circa 30 bcm annui, per poi continuare a scendere (ad oggi poco più di 11 bcm) per decisione del governo olandese, con l’obbiettivo di chiudere l’impianto entro ottobre 2022. La chiusura, dopo l’inizio del conflitto in Ucraina, è stata prorogata al 2023/2024. Questa scelta è stata dettata dalle proteste degli abitanti dei villaggi vicini all’impianto a causa di piccoli terremoti che hanno danneggiato case e edifici nella zona. Analizzando queste scosse però, osservando il grafico, si nota come negli ultimi trenta anni si sono verificati solo due terremoti leggermente superiori al valore di 3.5 della scala Richter, che non hanno comunque mai causato danni a persone. Per questa ragione, data la crisi energetica europea, il governo olandese e i cittadini potrebbero trovare un accordo amichevole per far ripartire l’impianto, che potrebbe estrarre circa 20 bcm di gas in poche settimane (13% del gas russo) e dare un grande aiuto all’Europa.
Contrariamente all’andamento della produzione olandese, la Norvegia da inizio anno ha prodotto il 6% in più tra gas e LNG, quota che a fine anno potrebbe essere pari a 7 bcm (5% del gas russo).
Infine, esistono tre progetti in discussione, interni all’Europa, che potrebbero aumentare la produzione indigena nei prossimi anni:
a) North Eigg: ad ottobre a largo di quest’isola scozzese, se le esplorazioni nel nuovo pozzo daranno esito positivo, attraverso un semplice collegamento all’infrastruttura esistente si riusciranno ad estrarre dal 2024 circa 2/3 bcm di gas all’anno per quindici anni.
b) Tyra: è un progetto avviato da TotalEnergies che mira ad estrarre dal 2023 circa 1.5 bcm all’anno per dieci anni nel Mare del Nord. Nella zona sono stati intrapresi una dozzina di progetti simili, anche se ad oggi meno avanzati, che potrebbero fornire ciascuno la stessa quantità di gas all’Europa.
c) Neptun Deep: a largo delle coste della Romania c’è un piano per costruire un pozzo da cui estrarre circa 8 bcm all’anno per vent’anni, ma nonostante diversi anni di discussione non è ancora stato approvato. Potrebbe essere pronto dal 2026/2027, ma solo se le autorità dovessero concedere il via libera in tempi brevi, ciò permetterebbe di sostituire una quantità equivalente al 5.5% del gas russo.
Conclusioni
In conclusione, possiamo affermare che a medio termine l’Europa ha diverse strade da poter percorrere per sostituire i 150 bcm di gas che venivano importati dalla Russia. In particolare, utilizzando LNG. I progetti avviati per costruire rigassificatori o FSRU (Floating Storage and Regasification Unit) pronti tra il Q4 del 2022 e il Q1 del 2023 hanno capacità per 20 bcm, mentre altri impianti con capacità pari a 130 bcm sono attualmente in discussione e potrebbero iniziare ad essere costruiti a breve.
Assumendo che il gasdotto strategico che collega Spagna e Francia verrà costruito, l’Europa dal 2025 potrebbe avere una capacità di rigassificazione di LNG pari a 390 bcm sostituendo completamente i flussi di gas russo e lasciando Putin senza una grossa fetta di mercato che garantiva alla sua nazione ingenti guadagni.
Il problema principale rimane legato a questo inverno, in quanto l’Europa si è trovata a dover sostituire un’enorme quantità di gas proveniente dalla Russia in pochissimo tempo.
Come illustrato precedentemente le variabili determinanti sono tre: le temperature invernali, gli attuali flussi di gas che vengono importati e un adeguato ed efficace piano di risparmio energetico.
Questo inverno non possiamo sapere quanto sarà rigido il clima, quindi su questo c’è assoluta incertezza. I flussi di gas e, soprattutto di LNG, che ad oggi arrivano in Europa, come illustrato precedentemente, continueranno solo se: i prezzi europei rimarranno superiori a quelli asiatici, i progetti avviati per nuovi impianti di stoccaggio e rigassificazione verranno conclusi in breve e i Paesi esportatori riusciranno a garantire gli attuali livelli di produzione. Infine, riguardo ai piani di risparmio energetico, bisogna sperare che le manovre introdotte da Commissione Europea e governi siano sufficienti per far sì che la macchina produttiva europea non si fermi, anche se questo dipenderà comunque dalle temperature invernali.
Elettricità Overview
La rete elettrica europea è la più grande rete elettrica interconnessa al mondo, ha la capacità di offrire simultaneamente elettricità a 520 milioni di persone in 32 Paesi diversi, inclusi Marocco e Turchia.
Il consumo totale nel 2021 dei Paesi del continente è stato pari a 2'635 TWh e se considerassimo anche Regno Unito, Irlanda e i Paesi Nordici e Baltici arriveremmo ad un consumo complessivo pari a 3'318 TWh.
Nella tabella sottostante vengono evidenziati i dati appena citati, illustrando anche il consumo medio giornaliero di ogni Paese:
Il nocciolo della questione è che questa rete si basa su leggi fisiche e una di queste leggi impone che la corrente alternata per scorrere efficacemente sulla rete ha bisogno che una condizione sia sempre vera, la generazione e il consumo devono essere sempre uguali, in quanto l’elettricità non può essere immagazzinata. Uno scostamento tra generazione e consumo porta a malfunzionamenti e a possibili blackout. Per misurare lo stato di salute di una rete si utilizza la “frequenza” che di norma deve essere pari a 50 Hz, con un margine massimo di variazione sia positivo che negativo pari a 20 Hz.
Per far sì che la frequenza resti sempre stabile, ogni quarto d’ora, ogni ora, ogni giorno, in tutta Europa vengono stimati il carico e la generazione di elettricità che poi viene assegnata attraverso un metodo ad asta che fa confluire l’elettricità nei nodi della rete dove è più necessaria. Tutto ciò è reso possibile da sistemi informatici avanzati ed innovativi.
Eppure, come possiamo notare dal grafico sottostante, nonostante l’utilizzo di queste nuove tecnologie, incidenti e deviazioni di frequenza, che possono verificarsi per svariate ragioni, nel 2021 sono aumentate più del 50% rispetto al 2020. In termini di tempo, gli incidenti di frequenza sono passati da 33 ore complessive nel 2020 a 52 ore nel 2021.
Lo scorso anno sono stati rilevati due incidenti principali, classificati come “Scale 2”, per i quali è dovuto intervenire un gruppo di massimi esperti di Entso-e (insieme dei 39 gestori dei sistemi di trasmissione della rete elettrica europea), per intenderci sono l’ultima possibilità che abbiamo per risolvere un problema di tale entità. Il primo si è verificato l’8 gennaio, ha diviso in due aree separate la rete elettrica del continente a causa di errori a cascata su importanti elementi di trasmissione (durata disservizio: 1h). Il secondo è accaduto il 24 luglio, e ha portato alla disconnessione della penisola Iberica dalla rete principale, a causa di un grave incidente in un impianto francese (durata disservizio: 30 min).
1. Sud-Est Europa disconnesso 2. Penisola Iberica disconnessa
Il problema generale è che la rete elettrica europea non riesce più ad essere alimentata solamente attraverso la produzione interna, ma siamo costretti ad importare elettricità, di conseguenza diventa complicato far combaciare la generazione con il carico (consumo) necessario. Nella tabella sottostante viene evidenziato il deficit di ogni Paese in termini di GWh:
L’elettricità che viene prodotta può essere classificata in due categorie: quella di cui possiamo stimare una previsione e quella che, invece, rimane incerta. Possiamo prevedere la quantità di energia generata da fonti come il nucleare, il carbone, il gas, il petrolio, la biomassa, la trasformazione di rifiuti e alcune fonti rinnovabili. Mentre non possiamo determinare a priori l’ammontare di energia proveniente dal corso dei fiumi, dai bacini idrici, dal vento e dal sole.
Ad oggi, per colmare il deficit europeo i due maggiori esportatori sono Norvegia e Svezia che forniscono principalmente la Finlandia e gli Stati Baltici, per poi offrire ciò che rimane dei 29 TWh (2021) complessivi al Regno Unito e all’Europa. Dal 2023 la Finlandia attiverà un impianto nucleare, che le permetterà di produrre internamente circa 10 TWh all’anno, e di conseguenza la stessa quantità di elettricità verrà deviata verso il vecchio continente e il Regno Unito. Rimane comunque incertezza sulla quantità effettiva che verrà importata dato che i Paesi Nordici producono circa il 40% della loro energia attraverso la seconda categoria di fonti energetiche. È facile intuire che le variazioni di anno in anno possono avere ampi scostamenti in base al clima.
I problemi europei nel breve periodo
L’Europa ha quattro problemi significativi che urge risolvere nel breve termine e un problema strutturale enorme legato al lungo periodo. A breve:
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La chiusura da parte della Germania dei suoi impianti nucleari
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La riduzione dell’output dei reattori nucleari in Francia e Regno Unito
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I livelli dei bacini idrici in Norvegia
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L’integrazione della rete elettrica ucraina
Prima di illustrare questi quattro punti è bene comprendere la singola situazione di questi Stati. Per essere chiari, se solo Italia, Austria e Ungheria avessero gestito meglio durante gli ultimi trent’anni le proprie politiche di approvvigionamento energetico, non saremmo qui a discutere di questa crisi, o meglio la situazione non sarebbe così grave.
Italia:
a) Non ha mai sostituito la capacità di generazione di elettricità dei suoi impianti nucleari dopo averli chiusi negli anni ‘90
b) Non dispone della capacità necessaria per generare elettricità relativamente al fabbisogno annuale
c) La rete elettrica fa affidamento sul gas, ma l’Italia non dispone di siti interni da cui estrarre una
quota sufficiente di gas, la maggior parte è importato
d) Non dispone di un impianto eolico offshore che produca almeno 1 MW, sono stati fatti pochissimi
investimenti
Dai dati presenti nella tabella sottostante si intuisce la criticità della situazione energetica italiana:
Austria:
Ha sempre puntato sull’idroelettrico (ricordiamo che la generazione non è stimabile), tanto che la percentuale di energia che deriva da queste fonti si attesta all’80%, contro il 20% delle fonti prevedibili. Infatti, bisogna sottolineare che il Paese non ha mai avuto una generazione costante, affidandosi spesso alle importazioni dalle centrali nucleari tedesche. Il problema è che da quando la Merkel nel 2010 ha avviato il piano per la transizione energetica “green” con l’obbiettivo di chiudere le centrali nucleari, i governi austriaci non hanno intrapreso nessun progetto per sopperire alla futura mancanza di energia.
Ungheria:
Il Paese governato da Orban ha la rete elettrica che si basa sulla generazione di energia proveniente dal gas, ma internamente riesce a produrre meno del 20% del suo consumo annuo. Il resto lo importa, o meglio lo importava dalla Russia. Senza flussi provenienti da Mosca, deve acquistare da altri fornitori circa il 40% del suo consumo medio annuo. Inoltre, l’Ungheria ha diversi problemi relativi allo stato della rete che necessita di grandi opere di manutenzione.
Altri Paesi su cui vale la pena puntare i riflettori sono:
- La Svizzera che gestisce in maniera ottimale la sua produzione di elettricità rispetto al suo consumo, riuscendo ad esportare anche una piccola quantità ai Paesi confinanti. L’unica pecca è di non aver sostituito l’energia prodotta da due reattori nucleari a Beznau che costeranno al Paese 6 TWh (pari al 10% della produzione) in cinque anni.
- La Slovacchia ha completato il suo terzo reattore nucleare e il quarto è in fase di perfezionamento (ultimato al 95%) dopo diciassette lunghi anni di scontri con le lobby antinucleare (Enel ha perso ingenti finanziamenti dalle banche dopo questa decisione). Nonostante sia pronto, non è ancora stato collegato alla rete elettrica quando invece, ora, è più utile che mai.
- Anche la Finlandia ha vissuto una situazione simile, non a causa delle proteste degli attivisti
antinucleare, ma in seguito ad un rapporto del WNISR (World Nuclear Industry Status Report) pubblicato nel 2006 che sosteneva che il progetto sarebbe stato un enorme fallimento finanziario. A marzo 2022 il reattore è stato collegato alla rete elettrica, testato e pronto a permettere alla Finlandia di diminuire il suo deficit energetico di circa 10 TWh all’anno.
- Il Belgio in questi anni ha fatto un eccellente lavoro espandendo la sua capacità produttiva attraverso fonti rinnovabili, installando impianti eolici e solari off-shore. Il problema del Paese, come quello svizzero, è che i suoi impianti nucleari sono vecchi e tra pochi anni verranno chiusi con il conseguente problema di dover sostituire un’importante quantità di energia prodotta internamente.
- Infine, l’Olanda, fonda la sua generazione di energia sul gas e sul GNL disponendo sia dell’imponente struttura di Groningen per l’estrazione del gas che di vaste riserve e rigassificatori per il gas liquido. Il problema, sociale-politico, riguarda l’impianto di Groningen che per via di piccoli, ma frequenti terremoti dettati dalla lavorazione dell’impianto potrebbe essere chiuso.
Passiamo ora alle vicende che mettono a rischio la sicurezza energetica europea:
1. La chiusura da parte della Germania dei suoi impianti nucleari
Successivamente a questa decisione la Germania diventerà un importatore di elettricità, infatti, la perdita di 4 GW di potenza nucleare di quest’anno costerà ai tedeschi:
(4 GW x 24 x 365 giorni x 92% di capacità = 32,237 GWh annui o 32 TWh)
Considerando che l’intera potenza nucleare tedesca, nel complesso, oltre ad essere la più sicura e una delle più “giovani” (in media ogni struttura è collegata alla rete da 22 anni) al mondo, era pari a 20 GW, oggi avrebbe soddisfatto gran parte della domanda europea. In più, la Germania è uno dei pochi Paesi al mondo che avrebbe potuto essere “nuclear independent”, grazie all’accesso all’uranio, alla capacità di arricchirlo e di costruire i reattori internamente.
Questo avrà un impatto significativo anche sui Paesi che importavano elettricità dalla Germania come Italia, Austria (entrambe già in pesante deficit energetico) e Lussemburgo.
Data questa scelta e la crisi energetica in corso, a luglio il governo tedesco ha deciso di riattivare temporaneamente le sue sedici centrali a carbone. Estraendo il 100% della lignite (carbon fossile) utilizzata per alimentare gli impianti da miniere interne, i costi di produzione saranno i più economici possibili, dietro solo all’uso del nucleare. Anche qui però, purtroppo, sorge un problema: le centrali sono ben collegate e rifornite di materia prima attraverso i fiumi, ma ad oggi, quest’ultimi soffrono la calda estate appena trascorsa e il loro livello rischia di frenare il tragitto delle imbarcazioni. L’altezza minima necessaria perché le barche possano viaggiare lungo il corso dei fiumi è di 1.5 metri; in questo periodo in alcuni tratti questo valore non è raggiunto e ciò crea diversi disagi. L’alternativa è utilizzare il trasporto ferroviario, la cui capacità di carico pero è molto inferiore e di conseguenza i costi incrementano.
Alla base del problema c’è la scelta di voler essere etici e “green” a tutti i costi, che ha portato la Germania a ridurre negli ultimi vent’anni la sua produzione di energia al punto di affidarsi principalmente al gas (russo).
2. La riduzione dell’output dei reattori nucleari in Francia e Inghilterra
La Francia è da sempre la campionessa dell’energia nucleare in Europa con una capacità di produzione pari a 450 TWh all’anno (62 GW), grazie ai suoi 57 reattori. Rispetto ai dati forniti dalla guidance rilasciata da EDF (Électricité de France), gli esperti stimano che la capacità effettiva di utilizzo ad oggi è pari al 59% o 315 TWh. Per raggiungere questo valore la società francese dovrebbe comunque risolvere molti problemi di manutenzione a causa di misteriosi “fenomeni di corrosione” dei suoi impianti. Sul mercato la società non è riconosciuta per la sua grande sincerità nelle proprie dichiarazioni.
Contestualmente per comprendere la poca efficienza degli impianti francesi basta osservare il grafico da inizio anno relativo all’andamento della produzione di energia nucleare:
Da qui possiamo intuire che l’incremento dei prezzi dell’energia in un Paese come la Francia (grafico sotto), da sempre esportatore di elettricità, forse non è collegato esclusivamente alle mosse di Putin, ma ad una pessima gestione degli impianti della nazione.
Per la prima volta dopo decenni i francesi (YTD fine agosto), si sono trovati costretti ad importare elettricità, portando così ancora più volatilità su un mercato già altamente frenetico.
Inoltre, EDF è proprietaria di reattori anche in Inghilterra e Belgio, ma anche lì la gestione della compagnia non evidenzia buoni risultati, anzi, la capacità di utilizzo, come in Francia, è inferiore al 60% e gli inglesi quest’anno stanno registrando l’output più basso dal 1982.
Dopo aver compreso e analizzato questi dati possiamo affermare che l’Europa rinunciando al nucleare sta commettendo un gravissimo errore strategico. La generazione di energia da questa fonte, oltre ad essere la più efficiente, come possiamo notare dal report di “Our World in Data” è la più sicura, la più affidabile in termini di stabilità di frequenza sulla rete e la più sostenibile che l’umanità abbia mai conosciuto.
3. I livelli dei bacini idrici in Norvegia
Il blocco “Nordpool”, il gruppo di Paesi del nord con enormi riserve idriche può essere un fattore in questo contesto di crisi energetica.
In particolare, la Norvegia è da sempre un esportatore di elettricità per UK ed Europa, garantendo una certa sicurezza al continente. Il problema è che in seguito alla calda estate appena trascorsa e la poca neve caduta in primavera i livelli dei bacini idrici sono sotto la media degli ultimi vent’anni (74.9% vs 66.5% attuali).
Questo fattore e i colli di bottiglia nella rete norvegese tra nord e sud, hanno portato i prezzi dell’elettricità nella zona sud-ovest del Paese al valore record di 423 € per MWh, portando il ministro dell’Energia a valutare una possibile limitazione alle esportazioni se i livelli dei bacini dovessero raggiungere livelli molto bassi, così da evitare carenze interne nel lungo periodo. Nel caso in cui si dovesse verificare questa situazione, con altissima probabilità l’Europa si troverebbe in una condizione di insufficienza elettrica.
4. L’integrazione della rete elettrica ucraina
Infine, l’ultimo problema che minaccia nel breve termine la sicurezza della rete elettrica europea è il collegamento e la sincronizzazione della rete ucraina ad ENTSO-E.
Pur avendo fatto un’azione eroica nei confronti dell’Ucraina offrendo un supporto sostanziale, questa decisione aggiunge un rischio non indifferente alla stabilità di frequenza sulla rete. L’Ucraina genera circa metà della sua energia attraverso quindici reattori nucleari presenti sul suo territorio. Sei di questi si trovano a Zaporizhzhia, città e centrale occupata dai russi ormai da mesi, che il 25 agosto hanno spento e scollegato dalla rete i reattori dell’impianto. Questa situazione, che in primis potrebbe portare ad un disastro nucleare, genera malfunzionamenti sulla rete del Paese che potrebbero causare problemi di frequenza e interruzioni sull’intera rete europea aggravando il precario equilibrio attuale.
Il problema strutturale della rete europea
Concentriamoci ora sul problema di lungo periodo:
La Commissione Europea dopo aver preso l’impegno a ottobre 2020 di voler ridurre le proprie emissioni di CO2 del 55% entro il 2030, a giugno 2021 ha trasformato questa proposta in legge.
Per “salvare” il pianeta dagli effetti del cambiamento climatico bisogna far sì che la temperatura media della Terra non incrementi del 3%. Grazie agli sforzi dell’Europa, si riuscirà a raggiungere questo obbiettivo?
Osservando questo grafico la risposta sembra, purtroppo, scontata. L’Europa incide in modo irrilevante in termini di emissioni globali. Infatti, se immaginassimo che da domani i Paesi europei si de- industrializzassero al 100%, non vedremmo nessuna variazione significativa legata alle emissioni di CO2.
Il paradosso è che il Paese che inquina di più è per distacco la Cina che addirittura per necessità sempre maggiore di elettricità, nel 2023 collegherà un nuovo impianto a carbone dalla capacità di 33GW. Negli anni futuri, inoltre, le previsioni ci suggeriscono che i Paesi asiatici in via di sviluppo, come l’India, e quelli africani come la Nigeria (da 219 mln di abitanti a 600 mln nel 2050), contribuiranno in maniera sempre maggiore ad inquinare il pianeta vanificando gli effetti positivi, già limitati, della transizione green di USA ed Europa.
Quello che lascia ancora più dubbi su questo processo verso l’obiettivo “zero emissioni” è la disponibilità di metalli e minerali necessari all’Europa per raggiungere il suo scopo:
Questa tabella è emblematica, per sei metalli su undici, necessari per costruire una generazione di tecnologie in grado di sostituire le fonti fossili, le riserve di tutto il mondo coprono meno del 10% del fabbisogno di ogni elemento.
Oltre a ciò, l’Europa ha un altro problema legato all’invecchiamento dei suoi impianti nucleari attivi nel continente. In media un impianto lavora per una durata pari a 40 anni, la quale può essere estesa per altri 10/15 anni se le condizioni della struttura vengono valutate idonee. Partendo dal presupposto che per rimpiazzare un impianto sono necessari 15 anni, ad oggi, siamo semplicemente in ritardo. Non solo in Europa, ma anche in USA e Giappone. Come riportato dal grafico sottostante perderemo capacità di generare energia attraverso il nucleare per 18.8 GW entro il 2030.
Riuscirà l’Europa a sostituire la quantità di energia nucleare che perderemo attraverso le fonti rinnovabili?
La risposta, purtroppo, è no. Per compensare la perdita di 19 GW di energia nucleare servono 3'146 turbine eoliche da 15 MW. Ad oggi, ne esiste solo una installata nel porto di Rotterdam, in sette anni è fisicamente e logisticamente impossibile costruirne 3'145, anche se tutto il mondo dovesse concentrarsi esclusivamente sulla loro produzione. Per costruirle servono decenni e trilioni.
Le energie rinnovabili però possono sicuramente aiutare, in Germania l’energia eolica generata da un impianto off-shore nel Mare del Nord, produce una quantità, in percentuale, simile a quella degli impianti a carbone. Come accennato precedentemente, la sfida più grande per le fonti rinnovabili è legata alla stabilità di frequenza sulla rete elettrica. Quindi è necessario affiancare strutture di immagazzinamento che gestiscano i flussi di elettricità minuto per minuto per prevenire malfunzionamenti o, nel peggiore dei casi, blackout.
Ad oggi sembra impossibile riuscire nell’impresa di effettuare la transazione energetica in breve tempo senza pagare un prezzo enorme.
È emblematica l’analisi di questi due grafici relativi alla domanda di elettricità in Germania, a gennaio 2015 e a gennaio 2022. In questi sette anni, come discusso in precedenza, la produzione di elettricità da fonti nucleari nel Paese si è più che dimezzata, tanto che nei momenti di domanda massima la Germania è costretta ad importare elettricità perché le rinnovabili non riescono a colmare questo gap. Anche qui vi è un paradosso, l’elettricità importata deriva dagli impianti nucleari francesi.
Facendo sempre riferimento alla Germania, queste sono le previsioni fino al 2045 relative alla sua s-power:
In meno di trent’anni il Paese perderà metà della sua potenza energetica prodotta attraverso fonti stabili, e se pensiamo all’Europa che fino ad ora aveva sempre fatto affidamento sull’energia tedesca, il futuro dell’approvvigionamento energetico europea sembro sempre più buio.
L’unico modo per rendere affidabile la generazione di elettricità da fonti rinnovabili implica due fattori: raddoppiare la dimensione della rete (opera che richiede decenni) e costruire impianti di stoccaggio di sostanze chimiche in grado di convertire la generazione volatile di elettricità prodotta dalle rinnovabili in flussi stabili. Possiamo definirlo un passaggio da w-power (weather) a s-power (stable), ma che attualmente in termini di costi, materie prime e spazio sembra impossibile.
Impatto della crisi energetica sul PIL europeo
Prospettive economiche
Le conseguenze della crisi energetica in Europa stanno avendo e avranno un impatto devastante sull’economia di tutti i Paesi del vecchio continente. Nel grafico sottostante possiamo notare l’analisi svolta da Bloomberg Economics relativa alle stime del GDP dell’area Euro per i prossimi tre anni, dividendo le ipotesi tra tre scenari differenti.
La recessione in Europa è teoricamente certa, dai dati di questo trimestre (Q4 2022) dovremmo iniziare ad osservare una discesa in termini di GDP, che nel migliore dei casi (base scenario) sarà circa dell’1%, mentre se la situazione dovesse continuare ad aggravarsi potrebbe raggiungere addirittura il 5%.
Le stime relative ai tre scenari vengono evidenziate nella tabella sottostante:
Il primo caso illustrato da Bloomberg riporta una contrazione del GDP pari allo 0.9% ed è basato su due condizioni:
- I Paesi dell’Unione Europea implementeranno piani di risparmio energetico efficaci che riusciranno a limitare il consumo domestico di gas e quindi la produzione industriale soffrirà di meno.
- La Russia continuerà a rifornire l’Europa con gli ultimi flussi di gas rimasti attivi (10% rispetto al 2021).
Detto ciò, rimane sempre la variabile principiale e soprattutto non stimabile legata alle temperature che ci attenderanno questo inverno che potrebbero alleggerire o peggiorare la situazione.
Il secondo scenario, invece, assume due variabili e potrebbe portare ad una riduzione del GDP pari al 2.6%:
- L’inverno sarà molto rigido e di conseguenza gli sforzi introdotti dall’Europa per risparmiare sui consumi saranno stati vani.
- La Russia interromperà del tutto i flussi di gas, chiudendo anche l’ultimo gasdotto che attraversa l’Ucraina. Nel grafico sottostante è illustrata la riduzione degli approvvigionamenti di gas provenienti dalla Russia da settembre 2021.
Infine, lo scenario peggiore, che significa profonda recessione per l’Europa, fissa la perdita del GDP intorno al 5%.
Alle assunzioni del caso precedente si aggiunge la frammentazione del mercato europeo del gas e quindi divergenze tra i prezzi degli Stati membri dell’UE. Questa variabile creerebbe concorrenza interna e con molta probabilità i prezzi del gas schizzeranno a livelli mai visti prima, Bloomberg stima che il prezzo medio potrebbe aggirarsi intorno a 428 EUR per MWh. Inoltre, la situazione rischierebbe di minare la coesione che finora ha contraddistinto l’Europa.
Attuale situazione economica e piano strategico futuro
Ad oggi, la crisi energetica in corso ha già ampiamente eroso i margini di interi settori, soprattutto quelli in cui l’energia è un input fondamentale, come i produttori chimici, le acciaierie e i produttori d’auto. In queste industrie l’unica soluzione per alleviare gli ingenti costi energetici potrebbe essere chiudere temporaneamente gli impianti.
Tra le società che hanno segnalato difficoltà importanti troviamo:
Nell’industria chimica, Evonik Industries AG, una delle maggiori società a livello mondiale di prodotti speciali chimici, con sede in Germania, che ha dichiarato a Bloomberg che è preoccupata per la viabilità della società a causa dei costi elevati che perdureranno nel lungo termine. Domo Chemicals Holding NV (secondo produttore chimico in Germania) ha già iniziato a ridurre la propria produzione in Europa.
- Nell’industria automobilistica, invece, Volkswagen AG sta provando a trovare alternative alle difficoltà che i fornitori esteri stanno vivendo, cercando di costruire più componenti internamente o spostando la capacità produttiva in zone meno colpite dalla crisi energetica. L’italiana Iveco Group NV è in una situazione simile e sta avendo anch’essa colloqui con i propri fornitori per trovare una soluzione.
I governi per supportare cittadini e le imprese hanno implementato misure e proposte per alleggerire il peso dei costi energetici:
- La Germania ha salvato con un aumento di capitale di 8 miliardi di euro la società di utility Uniper
- La Francia ha programmato di stanziare 16 miliardi di euro per limitare gli effetti dell’incremento di gas ed energia per cittadini e pmi
- L’Italia ha approvato un piano di aiuti pari a 14 miliardi per sostenere le sue imprese
- L’Olanda ha presentato un pacchetto di sostegno alle famiglie pari a 17.2 miliardi aumentando il salario minimo e tassando gli extra profitti delle società energetiche
Questi aiuti, finanziati da nuovo debito degli Stati, si inseriscono in un contesto in cui la bilancia commerciale dell’euro zona ha visto bruciarsi tutto il surplus strutturale che aveva in pochi mesi a causa della crisi energetica.
Questa variazione, legata principalmente al costo dell’energia come si può notare dall’area rossa, purtroppo, potrebbe perdurare a lungo, mantenendo la bilancia europea in deficit per diversi anni.
I motivi sono essenzialmente due:
- Nel breve periodo, si spera, il primo elemento è il super dollaro. La valuta americana negli ultimi mesi si è apprezzata in maniera significativa rispetto a tutte le altre valute portando i cambi sui minimi storici. Dal grafico possiamo intuire la forza del dollaro che da marzo 2022 ha sopraffatto tutte le valute dei paesi sviluppati in seguito all’inizio del Quantitative Tightening da parte della FED. Tassi più alti, introdotti per combattere l’elevata inflazione che sta colpendo l’economia mondiale post Covid, hanno reso molto più appetibili i rendimenti dei titoli di Stato americani, considerati l’asset risk free per eccellenza. Di conseguenza grandi somme di capitale sono drenate dalle valute mondiali, che si sono deprezzate, verso il dollaro che, invece, si è rafforzato. Considerando che la maggior parte dei combustibili fossili e delle materie prime scambiate sui mercati sono in USD, l’Europa ad oggi deve sopportare un ulteriore costo dettato da questo movimento valutario.
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In un’ottica, invece, di lungo periodo il motivo che penalizza la bilancia commerciale europea è il nuovo contesto in cui il continente deve ricostruire il piano di approvvigionamento energetico. Se prima poteva esserci la speranza che una volta terminata la guerra, seppur in maniera minore, la Russia avrebbe ripreso a pompare a basso costo il gas in Europa, dal 27 settembre dopo il sabotaggio di entrambi i gasdotti Nord Stream questa ipotesi è diventata impossibile. Le autorità danesi hanno rilevato fuoriuscite di gas in quattro punti del condotto, dopo la rilevazione da parte di Gazprom di una perdita di pressione (attualmente le due linee non forniscono gas alla Germania, ma contengono comunque gas). In seguito ad indagini è stato scoperto che i gasdotti sono stati fatti saltare volontariamente, ma al momento non si è ancora risalito al responsabile. Le ipotesi relative al colpevole si dividono tra Russia e USA, entrambe potrebbero avere buone ragioni (i secondi un po’ di più), ma probabilmente non lo sapremo mai. In ogni caso, quello che è certo è che l’Europa non potrà più rifornirsi attraverso i Nord Stream per molto tempo, in quanto i danni all’impianto sono molto significativi. Dato che, come dimostrato nell’analisi precedente le fonti rinnovabili non possono sopperire alla perdita di gas russo, questo costringerà il continente a incrementare ancor di più l’approvvigionamento di LNG a prezzi sostanzialmente più alti di quelli del gas russo importato fino allo scorso anno. I maggiori Paesi esportatori sono proprio gli USA, seguiti da Qatar e Australia. Oltre a spendere direttamente di più in termini di prezzo della materia prima, l’Europa sarà costretta a investire ingenti capitali in rigassificatori per utilizzare l’LNG, incrementando ancor di più il costo di questa transizione. Assumendo che dal 2023 l’Europa non importerà più gas russo e che i suoi consumi diminuiranno del 3% all’anno, l’incremento totale della domanda di LNG a livello mondiale sarà comunque del +25%. Questo si rifletterà sui prezzi almeno fino al 2026 perché, come illustrato dal grafico di TotalEneries, l’offerta di gas liquefatto farà fatica a soddisfare la domanda mondiale pur lavorando alla capacità massima.
Conclusione
Alla luce di questo contesto, l’Europa si trova in una grave situazione che molto probabilmente la porterà ad una recessione nel breve periodo (ricordiamoci comunque della variabile “inverno”). Da metà 2023, quando verrà ristabilito un “equilibrio”, la recessione potrebbe trasformarsi in stagflazione in seguito ad un tasso d’inflazione che persisterà per almeno due anni parallelamente ad una crescita stagnante.
Alberto Conca, Chief Investiment Officer